HITCH – DAL ’27 AL ’72

DAL 13 NOVEBRE OGNI MERCOLEDÌ

AL CINEMA NUOVO OLIMPIA

“Un uomo non può vivere di soli omicidi. Ha bisogno di affetto, approvazione, incoraggiamento e, occasionalmente, di un pasto abbondante” – A.H.

A cura di Simone Fabio Ghidoni e Cesare Petrillo

Hitchcock il maestro del thriller, del giallo, del film di spionaggio. Hitchcock manipolatore delle folle, teorico della suspense, matematico compositore del ritmo filmico, geografo dell’inquadratura e dello spazio. Colui che definiva gli attori “bestiame” e affermava di annoiarsi durante le riprese delle sue pellicole, già impressionate nella mente prima del ciak iniziale. Se fosse stato solo questo, un posto tra i grandi registi non glielo avrebbe comunque negato nessuno. Oltre alla freddezza apparente, al talento tecnico indiscusso, al senso dello humor macabro, viveva un artista nel senso più pieno e romantico del termine. Alfred Hitchcock ha offerto al pubblico di massa l’accesso – impeccabilmente confezionato – alle più intime emozioni sue e dei suoi personaggi, ragione per la quale ancora oggi, a più di cento anni dall’esordio, è sinonimo di regia, un marchio e una silhouette tra le più riconoscibili della storia del cinema.

Sulla sua tecnica si sono scritte intere biblioteche. La padronanza del primo piano e del dettaglio, tuttora senza eguali. La macchina da presa che si trova sempre, senza eccezioni, alla distanza ideale e con l’angolazione più efficace a rendere un preciso stato d’animo. Un prosaico establishing shot in campo lungo, montato non in apertura ma in chiusura di scena. che non stabilisce un bel niente ma rivela, sorprende, amplifica. Ogni idea è visiva, prima ancora che dialoghi o colonna sonora possano arricchirla. La grammatica cinematografica raggiunge un tale livello di inventiva e precisione che l’invisibile ruba il palcoscenico al visibile, al plot, alla detection razionale. Le stesse identiche storie, nelle mani di registi meno coraggiosi, si risolverebbero in un susseguirli di eventi. In Hitchcock, invece, le trame fanno da pretesto: la posta in palio non è mai scoprire chi sia l’assassino o la spia, ma vivere un’esperienza emotivamente soddisfacente, orchestrata da un direttore infallibile nel comprendere le motivazioni dei personaggi; nel renderle nel modo più semplice e intellegibile possibile; nel far soffrire il pubblico dentro lo spazio sicuro e accogliente della sala.

È un patto implicito quello che rende la visione di un film di Hitchcock, a maggior ragione se su grande schermo, un processo sì collettivo, ma anche intimo. Significa accettare un invito a cena (con delitto), un giro sulle montagne russe. Ci si presenta con delle aspettative costruite di anno in anno, di visione in visione, ma poi bisogna fidarsi quando queste vengono riformulate o gettate alle ortiche (Psycho). È un gioco di seduzione, un regalo avvolto nel lusso di una confezione suadente, con l’obiettivo di smuovere qualcosa nello spettatore e, magari, ottenere in cambio un po’ di amore e di riconoscenza. Una connessione.

Hitchcock se ne è andato nel 1980 ma il legame col pubblico perdura, così come l’eredità lasciata ai cineasti che, dagli anni Sessanta in poi, me hanno fatto un modello autorale in grado di sintetizzare l’intransigenza della visione artistica con la capacità di coinvolgere le platee di tutto il mondo. Così, mentre le nuove generazioni ne scoprono l’opera, ogni vecchio cinefilo, critico, filmmaker che si rispetti ripercorre più e più volte i tesori della sua filmografia. Da qui la voglia di riproporre per diciotto settimane una selezione dei suoi migliori film, da The Lodger (1927) a Frenzy (1972), per sbirciare oltre i MacGuffin dell’omicidio, dell’intrigo internazionale, dello scambio di persona e ribadire perché Hitchcock rimarrà a lungo il regista per antonomasia, uno degli artisti visivi più personali, generosi e influenti del XX secolo.

Simone Fabio Ghidoni
Cesare Petrillo

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